mercoledì 10 ottobre 2012

Dentro le scarpe, dentro una malattia

Era il 1984 e io avevo 11 anni.

Nel 1984 a 11 anni eri un  bambino e si manifestavano incelabili sulla maggior parte di noi i segnali che tutto ciò che apparteneva all'adolescenza, non ci sfiorava nemmeno.
Il passaggio all'epoca dei "teenagers" era, trent'anni fa, segnato dall'oggi trascurabile dettaglio dell'età e pochi facevano eccezione, soprattutto nel mio quartiere, dove essere "scafati" era al massimo sinonimo dell'aver disobbedito al coprifuoco dei propri genitori ritardandolo di un quarto d'ora.

Anche io, ad 11, ero una bambina che non faceva eccezione. Senza primo bacio, col ricordo della Comunione così fresco da farmi fare il segno di croce ad ogni parolaccia sentita e detta, col sogno di un fidanzato ancora lontano, salvo Terence ovvio, con la felicità che pensavo fosse potersi trasformare in Creamy,  con rossetti e ombretti trovati su Cioè e cosa fondamentale, con l'idea che quello che pensavano in genere, della vita, i miei genitori, fosse ORO COLATO o l'unica realtà esistente.

Era il 1984 e quell'anno usciva il film che avrebbe condizionato una parte importante della mia vita: "Bianca" di Nanni Moretti. Malgrado, per le ragioni di cui sopra, allora non fossi in grado di capire appieno il perché.

Oggi, infatti, posso affermare con assoluta cognizione di causa che Bianca sia un capolavoro della cinematografia italiana, colmo, stracolmo, strabordante di frasi passate alla storia e degne di essere citate nei secoli, allora fu solo una serie di fattori a renderlo parte del mio pensiero, radicato nella mente come fosse  un vissuto.

Un po' come quelli che nei primi anni di vita hanno subito piccoli traumi che si portano avanti fino alla fine dei loro giorni, che ne so, quelli a cui è morto il pesce rosso tornando dal luna park perché un ramo appuntito ha bucato irrevocabilmente la bustina-gavettone che lo conteneva, quelli che sono andati mascherati da Zorro all'asilo sbagliando giorno, quelli che sono stati costretti dalla suora a finire l'orrida pasta al sugo della mensa perché ci sono bambini che muoiono di fame e rispettivamente non vogliono animali in casa, detestano il carnevale e non mangiano pasta al sugo.

Il mio "trauma", in senso molto lato, è un pezzo di Bianca che mia mamma, allora trentottenne, mi fece vedere che avevo dodici anni, quando passarono il film in tv; lo stesso pezzo che per l'anno precedente aveva osannato come farebbe un prete con la Bibbia.

Già perché mia mamma, nel 1984, guardava le scarpe delle persone e le commentava, si sforzava di classificare chi le indossava, ne sottolineava l'orrore in alcuni casi.
E io con lei.
La mia ingenuità bambina, ed era tanta, mi faceva credere che quella di mamma fosse una filosofia di vita ragionata che imparavo a condividere, non l'ironica affermazione della follia morettiana.

A lui avevo imputato il fatto che mamma comprasse, quell'anno, solo Sacher Torta, che apostrofasse chi non aveva visto il film con un laconico "Continuiamo così, facciamoci del male" ma il resto era stato elaborato e reso assolutamente proprio da mia madre, non riferito sotto forma di citazione e quindi impossibile da classificare come tale.



Così, quando per la prima volta vidi la sequenza finale di Bianca, rimasi abbagliata, scossa, catturata come se avessi avuto un'apparizione!
Ecco quello che diceva mamma!
   
E così ho tramutato una filosofia in immagine rendendola viva ed eterna:
Nanni, che osserva le scarpe delle persone che camminano all'altezza dei suoi occhi, dall'interno della finestra di un seminterrato è, ancora oggi, per me, un po' come L'arte di Amare di Fromm per uno psicologo, la base.
Migliorabile e attualizzabile ma non ignorabile.



"Ogni scarpa una camminata, ogni camminata una concezione del mondo. Volete stare comodi a casa vostra? Fate quello che volete ma non le pantofole."

 "E quando ho visto le sue scarpe io ho capito tutto di lei, è un uomo che ha sofferto, che ha solo un paio di scarpe alla volta, che piano piano si consumano, diventano lise, perdono il colore"

"Una volta era più facile giudicare, come con le scarpe, c'erano solo alcuni modelli, molto caratterizzati, erano quel tipo di scarpe e basta"


Per me queste frasi sono diventate un modo per guardare le persone, per capirle, per delinerarne la personalità.
Ora, probabile che, dieci minuti dopo aver messo on line questo post, arrivi un signore con un camice bianco con le maniche lunghe, lunghe da farmi indossare ma, per dirla proprio alla Moretti "Io non sto malissimo".
Altresì detto: non ci posso far niente, è così.

Non è cattiveria, non è classismo, è una cosa più forte di me, una delirante forma mentis che mi fa fare una cernita preventiva tra le persone che so che riuscirò a frequentare e quelle che non, tra coloro che mi sono più affini e quelli meno.

Forse è il caso di specificare, prima di passare per una razzista snob, che questa divisione non è   Chanel sì, ballerina no o Hogan sì, Logan no, Timberland sì e Lumberjack no. No.
Non è questione di ricchezza o marchio ma di come e dove (ai piedi?) si porta un paio di scarpe.

Possiamo chiamarli anni di esperienza al servizio dell'autodifesa? Probabile.
Credo che anche per Moretti fosse così.
Ormai è un gesto talmente automatico quello di guardare le scarpe di una persona e farmi un'idea della stessa, che non ragiono più sul bandolo della matassa.
Ha sempre funzionato per me e non mi meraviglio che continui a farlo.

Rea confessa, ora, posso aspettarmi la lapidazione di massa di chi trova orrido un tale punto di osservazione e mi classifica vicino ai peggiori neonazisti.

Li attenderò con la coscienza pulita di un assassino giustificato dalle proprie psicopatie, mi affiderò alla clemenza del pubblico biasimevole che ringrazierò per la loro magnanimità.

Vi prego però, non fatemi vedere i mocassini coi calzini di spugna.











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