mercoledì 16 maggio 2012

"Quello che (non) ho"...

...è informazione.
Quello che non ho è informazione.
Cosa non fanno delle virgolette e delle parentesi eh?
Ne voglio parlare.
Ieri sera puntata d'esordio (prima delle tre consecutive) del programma di La7 con Fabio Fazio e Roberto Saviano, "Quello che (non) ho", appunto.


Ne voglio parlare perché raramente, forse mai addirittura, mi capita di voler rimanere davanti alla televisione incollata e alzarmi solo per  fare la pipì e solo durante la pubblicità, sbrigandomi pure.

Raramente, soprattutto se si pensa che si tratta non di un film giallo dai risvolti imprevisti, ma di uno show televisivo.

Quando ho finito di vederlo, dopo aver digerito il pugno allo stomaco di troppe storie che di solito non ce la faccio ad ascoltare, ho provato un moto di rabbia fortissimo.

Nei confronti di chi? Di me stessa, innanzi tutto.
Perché anche io, come tanti, pur non essendo tra coloro che hanno scelto di non mettere in discussione il sistema, denunciando e volendo sapere, ho permesso, mio malgrado, che tappassero la bocca alla giustizia, all'onestà, all'integrità morale per tollerare tante, troppe bugie.

Sarei dovuta scendere in strada ad urlare alle persone di svegliarsi, avrei dovuto bussare a tutte le porte e regalare libri, abbonamenti a giornali indipendenti, vietare la televisione che racconta cazzate, come si usa dire "scuotere le coscienze".

Invece so. Ma non faccio. E ieri sera, guardando "Quello che (non) ho", mi si è palesato in maniera assai prepotente .

Sembrerebbe banale l'idea del programma, di restituire il significato reale alle parole eppure, se ci si pensa, è proprio quello di cui abbiamo bisogno. Ricordare cosa significhi legalità, per esempio, ormai confusa in un tutt'uno con impunità, restituirci la parola futuro, che sembra impossibile anche solo da pronunciare, riappropriarsi dell'idea di leggerezza, ormai considerata un'utopia anche a vent'anni.

Lo hanno spiegato bene tutti i partecipanti a "Quello che (non) ho", i Caronte, Fazio e Saviano,  quanto gli ospiti.

La cosa meravigliosa di queste tre ore di parole è che contenevano una rabbia fortissima, la stessa che mi è stata trasmessa in tutto il suo scorrere, ma pronunciata con una pacatezza, con un sottile filo di voce, senza urlare, senza che nessuno prevaricasse nessun altro... susseguendosi.

Raggiungendo comunque il cuore di chi lo ha guardato.

Forse, come qualcuno ha detto, non è televisione di rottura, non è niente di coraggioso o di eclatante, non squarcia il cielo della banalità a schermo piatto ma non importa.

Perché importa più che chi si è abituato ad udire senza ascoltare, ad accettare passivamente ogni notizia che i media propongono, può intravedere un punto di vista diverso. Riuscendo a sentirlo, perché non urlato.

I programmi di rottura allontanano gli scettici.
Questo no e fa arrivare anche quello che a coloro che sono abituati ad informarsi sembra banalità, ma per molti è un'apocalisse.

Per me tutto ha, in questo programma, un senso.

A partire dalla location, OGR- Officine Grandi Riparazioni di Torino, un capannone dove un tempo riparavano treni.
Operai riparavano treni. 
Un programma per avvicinare l'informazione  alla gente che ha voglia di sapere, fatta dove lavorava la "classe operaia".

E già mi sta parlando qualcosa, prima di qualcuno.

Le parole scelte dagli ospiti, su un led alle spalle degli stessi,  si compongono lettera per lettera, come gli arrivi e le partenze dei treni sul tabellone della stazione. Qui, dove i treni si fermavano guasti.

In questa specie di Musée d'Orsay le cui mura raccontano lavoro, in cui ogni angolo trasuda storia di operai, si sta provando a dire.

Come si è capaci, senza la presunzione di essere perfetti.

Solo lottando,  opponendosi a chi ha lavorato anni per appiattire, eliminare il senso critico con la tv, attraverso lo stesso mezzo.

Parole in "alta definizione" che arrivano a chi le ascolta.




Il mio momento preferito: Politica e Antipolitica in un confronto tra Marco Travaglio e Gad Lerner.

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