Tralasciando la partita, mi sono messa a riflettere sulla notizia che oggi invade le cronache sportive.
Vado ad enunciare:
Verso la fine del secondo tempo, sul 4 a 0 per i gobbi, Lichtsteiner, ex giocatore Lazio, ora alla Juve, si è girato verso l'avversario Lamela e ha mimato con le dita il risultato. Lamela s'è fatto salta' la mosca ar naso e j'ha sputato.
Ora, il mio disquisire non si ferma al fatto istesso, del quale, sinceramente, me ne frega poco ma sull'interpretazione che ne hanno dato. Parole sprecate dai giornali, per provare che Lichsteiner, che all'epoca non solo non stava alla Lazio, ma manco giocava in Italia, si sia voluto vendicare dello stesso gesto fatto da Totti nel 2004 in un Roma-Juve (finito 4 a 0 per i giallorossi).
Non lo credo.
Sono convinta invece, e questo è il motivo principe della mia riflessione, che per essere giocatore, per riuscire a vivere l'agonismo di una partita di calcio, devi essere fondamentalmente un coatto. Dentro. E che un botta e risposta come quello di ieri sera, fa parte dell'essenza di un calciatore.
Odo cori di lettori che commentano
"Eh, è arivata pensece, grazie ar ca..!"
perché in effetti la riflessione di per sé è quasi retorica. Dunque? Dunque io gioco a calcetto.
Male, ovviamente.
Come dico sempre:
gioco meglio di un uomo scarso ma peggio di una donna brava.
Dicevo, gioco a calcetto eppure quel modo di essere coatta mi manca.
E qui il dilemma che da ieri sera mi devasta: è perché sono donna?La femminilità elegante che non mi riconosco, si riversa tutta nel gioco, nel duello?
C'ho riflettuto.
Giocare a calcio mi è sempre piaciuto, fin da quando avevo 6 o 7 anni.
Alle elementari, dalle suore, nel dopo mensa, toglievo il grembiule color verde-troppelavatrici e facevo la partitella con i maschi, nel campetto ricavato in un angolo di cortile, piastrellato di mattonelle durissime che se ci cadevi potevi dire addio a tutto ciò che impattava con il suolo, mani, ginocchia, vestiti, zaino. Tutto irrimediabilmente abraso.
Alle medie mi fasciavo il seno come una mummia per riuscire a giocare con i miei compagni di classe, collezionando pallonate e botte, regalate da adolescenti in piena tempesta ormonale, che puntavano ad abbattermi colpendo i miei punti deboli, come la terza di reggiseno già presente.
Alle superiori, dove avevo dolcemente rimediato il soprannome di centravanti di sfondamento, barattavo con l'insegnante di educazione fisica, una pigra cinquantenne, una mia mezz'ora di lezione di pallavolo alle compagne, con la partita.
Ecco, già allora avrei dovuto imparare che il calcio, in qualsiasi sua forma, non è uno sport propriamente femminile.
Eppure non mi sono mai rassegnata,forse perché anche io non sono propriamente femminile?
E questo è il punto.
Ho realizzato ieri sera, dopo Lichsteiner-Lamela, di non essere riuscita a diventare una calciatrice, perché mi è mancato quel modo di essere coatta, più che perché mio papà non voleva che lo praticassi!
Ce l'ho dentro, lo so. Mi esce quando qualcuno mi tratta da cretina, quando subisco delle ingiustizie o un banale sopruso, quando devo rimettere al suo posto chi si è preso troppe libertà ma in campo... in campo non esce.
In campo, sono più donna che nella vita. Prevalgono l'educazione, il senso di correttezza, la voglia di divertirmi, l'eleganza. Tutte cose sacrosante, per carità, ma non vanno bene per essere una calciatrice vera.
Ho giocato dei tornei che definire amatoriali è fargli un complimento. Lì, le avversarie con cui io e le mie adorate colleghe abbiamo combattuto, ce l'avevano l'essenza coatta. Te la davano la spinta quando l'arbitro stava di spalle perché due minuti prima le avevi dribblate, ci si buttavano a terra dandoti del macellaio anche se non le avevi toccate, ti umiliavano con sombreri o colpi di tacco davanti al portiere per dimostrare la superiorità! Io non lo so fare! Non ci riesco!!
Non potevo andare a dormire con questa triste consapevolezza nello stomaco!
Dovevo trovare il bandolo della matassa!
Non avevo voglia di ridurre il tutto al solito mancato coraggio di vivere!
Bene, ho capito questo: Non esce perché lo temo.
Lo temo proprio lì, sul campo, dove è l'istinto a governare, dove la ragione ha solo il compito di farti scegliere come e a chi passare la palla, dove dovresti aver voglia di vincere.
Così temo.
Temo di diventare l'incredibile Hulk e di travolgere tipo schiacciasassi tutto ciò che mi si para davanti.
Temo di vendicarmi con innocenti calciatrici, di ogni volta che mi sono sentita inferiore nella vita.
Temo l'abbrutimento dei miei gesti, già molto compromessi da anni di simulazione.
Temo il sopravvento dell'irritante spocchia che ogni tanto fa capolino nel mio quotidiano.
Temo di non essere in grado di gestire la mia parte coatta.
Quando sono andata a dormire sembravo, dopo questa riflessione, più rilassata e serena.
Peccato che il mio grillo parlante borgataro mi abbia dovuto necessariamente sussurrare nell'orecchio non poggiato sul cuscino
"Aaaa cigno nero! Ma vattenaf...".
Per questo so che ho fatto bene a non fare la calciatrice.
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