giovedì 23 gennaio 2014

Potranno mai le mie parole esserti da rosa?

Ho un problema di dipendenza dal canale RealTime.

Dipendenza grave.

Questione di attrazione verso programmi che io chiamo "ad elettroencefalogramma piatto",  capaci di lobotomizzarmi il necessario, o di farmi fantasticare su cose di cui normalmente faccio benissimo a meno o addirittura disprezzo.

Tipo "Mamma contro Suocera - Chi veste la sposa" che mi fa venire in mente di dire "a me quel vestito starebbe malissimo" quando io i vestiti da sposa li detesto insieme all'idea del matrimonio in chiesa e dell'abito bianco.

O "Paint your life" che adoro e che mi fa credere che posso anche io creare degli oggetti utili da altri oggetti inutili, quando in realtà non sapevo nemmeno fare i "lavoretti" per la festa della mamma o del papà, alle elementari. Mi venivano malissimo e ci soffrivo tanto!

Non parliamo poi del "boss del Fai da Te", un genio del bricolage a cui invidio tutti gli attrezzi usati, dalla sparapunti alla levigatrice, che mi fa immaginare vestita da Mario Bros. con i cacciaviti inseriti nel cinturone e il trapano a pistola, mentre modifico tutti i mobili di casa solo con quattro pezzi de legno raccattati dalla monnezza.

Oppure mi guardo "Dire, fare, baciare" ricordando i miei fasti passati, con trucco nero e marcato che seguiva la moda dei Duran Duran e provo tenerezza per quelle persone che devono mascherarsi per sentirsi a loro agio.

Mi guardo ovviamente anche tutti i programmi di cucina, perché penso che per osmosi, prima o poi, imparerò a fare una coulis e non una salsa, una concassé e non la verdura a dadini irregolari, a far caramellare la carne, a impiattare il riso in maniera elegante e non sbattendolo tipo cazzuola nella scodella, a fare la crema pasticcera "a occhio", a cuocere il maiale senza che diventi 'na soletta da scarpe, a farmi venire in mente ricette senza doverle seguire pedissequamente su riviste, libri e siti internet.

Poi mi faccio venire le paranoie, incapace di cambiare canale, mentre c'è "Sepolti in casa" o "Accumulatori seriali", pensando alla mia collezione di mucche che prende il sopravvento sui mobili del salone, sul divano, in cucina, in bagno, invadendo a macchie bianche e nere ogni anfratto libero.

Mi diverto con Enzo Miccio e Carla Gozzi in ogni loro programma, ricordando che ho vissuto gli anni ottanta e vestirsi male era vestirsi bene e che c'è gente che ha veramente gli specchi di legno; o pensando che a Shopping Night farei una pessima figura anche solo per i 16/9 dello schermo televisivo in cui apparirei.

Tutti questi programmi e mille altri hanno su di me un fascino calamitante, che attraversa l'invidia, la compassione, la curiosità.
Li guardo quando ho bisogno di non essere me, di giocare come quando guardavo "Quando si ama" e speravo che finalmente Trisha e Steve si amassero in santa pace; o come quando guardavo i cartoni animati da bambina sognando che anche io, tuffandomi in una pozzanghera mi sarei trasformata in Creamy invece che in una bambina zozza.

Ce n'è uno però, di programma, che non  ha lo stesso effetto estraniante che hanno gli altri, su di me.
Il format si chiama "Obesi, un anno per rinascere".

I protagonisti sono persone in gravi condizioni di salute dovute all'obesità, che in sei mesi circa provano a riprendere il controllo del loro corpo dimagrendo, ovviamente seguiti da personale medico.
Parliamo di uomini e donne che devono perdere non meno di 90 kg.
Per esempio tra i 4 protagonisti della puntata di ieri sera, c'era un uomo che dopo dieci mesi di dieta e ginnastica aveva perso 96 kg. Si sentiva orgoglioso perché aveva raggiunto " la metà del percorso".

Sono cifre iperboliche, impressionanti, delle quali non riesco neanche a capacitarmi eppure se sento parlare i protagonisti, se ne ascolto le storie, mi viene da piangere, li capisco, mi immedesimo e combatto con loro durante la puntata, sperando che ce la facciano.
Se mi vedessero, probabilmente, penserebbero che io sia una squilibrata mentale, cosa non tanto distante dalla realtà, una povera mentecatta che non si rende conto di quello che dice e che anzi, gioca con i sentimenti altrui sentendosi accomunabile a persone gravemente obese pur entrando in una 44.

Eppure faccio i loro stessi pensieri, ne condivido i  processi mentali, penso che da come sono io a come sono loro, non ci siano 100 kg di differenza ma molti, molti di meno.

Ogni volta mi domando quanto sia il briciolo di amor proprio che conservo nascosto, a salvarmi, quanto la non accettazione sociale delle persone obese che c'è in Italia contrapposta alla quasi normalità americana, quanto la cultura del cibo totalmente diversa che osteggia l'ingrassamento senza misura, quanto invece io mi convinca ad essere quello che non sono e ad avere problemi che non ho.

In ogni caso non ho risposte. Non ne ho una sola almeno.

Mi rispondo solo che 10 kg in più, i miei, non dovrebbero essere difficili da buttar giù, a confronto.

Invece l'unica risposta che mi do è sbagliata perché è la stessa cosa...in scala.

Come quando cerchi di arrivare ad una destinazione guardando il percorso sul navigatore o studiandolo su una cartina: sono sempre chilometri anche se sembrano centimetri.






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